FRA GUIDONE ECCETERA ECCETERONE 1 страница



Nbsp; NARRATORI MODERNI PER LA SCUOLA Tonino Guerra - Luigi Malerba

Storie dell'anno mille


 

ed. Bompiani

DISEGNI DI ADRIANO ZANNINO

PREFAZIONE DI GIULIANO GRAMIGNA

 

© 1972 Casa editrice Valentino Bompiani & C. S.p.A.

Via Mecenate 87/6 - Milano

XVII edizione "Narratori moderni per la scuola" luglio 1980


 

PREFAZIONE

 

 

Il carattere che subito colpisce nelle vicende di Millemosche, Carestìa e Pannocchia è di essere favola vissuta in quanto favola, storia vissuta in quanto storia. Vale a dire che i protagonisti inventati e animati da Luigi Malerba e Tonino Guerra sanno benissimo di essere personaggi di un racconto e come tali di tanto in tanto si pavoneggiano e si osservano. Carestìa a una domanda risponde: "Siamo nel Medio Evo", usando il senno di poi che potrebbe impiegare il lettore e ricalcando la battuta del selvaggio incontrato da Cristoforo Colombo nella "Scoperta dell'America" di Pascarella: "Chi ho da essé? Sò un servaggio." Questa particolare situazione e la coscienza di questa situazione danno loro, contrariamente a quanto si penserebbe, una libertà, una irresponsabilità straordinarie che vengono a galla nei momenti più felici del libro. I tre sciagurati morti di fame (ma l'essere "morti di fame" è qui una qualità che va oltre il realismo, è un'ilare, dinamica connotazione che non rimanda alla vera fame ma a tutta una tradizione letteraria di affamati) vengono mossi, agiti da una forza che a un certo momento sfugge al loro controllo, opera dentro i loro corpi quasi loro malgrado e alle cui prodezze e malefatte assistono con una meraviglia e un divertimento non inferiori a quelli del lettore. Così il braccio di Millemosche che, in una delle invenzioni più stralunate e divertenti del libro, deve sostituire l'arto mancante del capitano dei mercenari, attraverso una sorta di trapianto incruento, rivestendo la dignità della funzione diventa autonomo e distribuisce schiaffi e pugni per tutto il campo, a dispetto della volontà del suo naturale e fisiologico titolare.

Guerra e Malerba hanno qui raccolto e portato all'estremo della caricatura tutti i luoghi comuni di un certo tipo di favola becera e picaresca, di cui si potrebbero indicare le ascendenze più o meno prossime, da Giambattista Basile al Pulci, al Bertoldo di Giulio Cesare Croce, fino magari al buon soldato Sschweig. Fame, pestilenza, guerra, tutti i grandi flagelli dell'epoca in cui si muovono i personaggi del racconto ("Infatti quei tempi erano il Medio Evo, quando le campagne erano abbandonate e non si faceva altro che combattere da tutte le parti e contro tutti e c'era una gran polvere in giro e se pioveva la polvere diventava fango e allora c'era un gran fango...") vengono comicamente degradati, stravolti: perfino la morte diventa buffa. Millemosche, cavaliere senza cavalcatura, e i suoi sodalivittime Pannocchia e Carestìa le passano brutte: battaglie, camminate, digiuni interminabili, caccia disperata e inutile al cibo (e quando finalmente esso capita a portata di mano, pare un'allucinazione), avventure in convento, falsi miracoli, partecipazione a un assedio, rischio di vedersi bruciare una mano sul braciere o di finire sul rogo come indemoniati, incontro e breve parentesi idillica di Millemosche con la bella Menegota, eppoi ancora fughe, scampando al mare e alla cattura dei pirati... La fame è la compagna inseparabile e fa scattare le situazioni più divertenti, le formule stilistiche più folgoranti:

"Le lucertole si mangiano solo quando si è proprio affamati, cioè sempre."

Sono uomini Millemosche e soci? ci si può chiedere. Certo non lo sono ma non sono neppure fantocci: proiezione di una facoltà inventiva e dissociativa scatenata, essi sono l'incarnazione di un mondo che ha felicemente perso ogni rispetto alle convenzioni e che diventa corposo proprio per la sua assurdità. In questo mondo non si danno più confini fra dentro e fuori, sogno e veglia, linguaggio figurato e linguaggio letterale. Sta qui il carattere specifico della storia architettata da Malerba e Guerra, che obbedisce a una logica formale, esteriormente impeccabile, sostanzialmente folle. I personaggi agiscono nello stesso modo in cui parlano nei loro dialoghi, che son quasi sempre divertentissimi esempi di nonsenso. "Certo che i piedi sono un disastro. Sarebbe meglio non averceli."

"Giusto. Se uno non ha i piedi non ha nemmeno il mal di piedi."

"A me piacerebbe di non aver la pancia così non avrei più fame."

"E la schiena? A che cosa serve? Solo per avere il mal di schiena. Anche quella sarebbe meglio non avercela."

"A me sono i pensieri che mi disturbano. Penso troppo e poi mi viene il mal di testa. Mi piacerebbe non averci la testa".

L'esempio più flagrante è nell'episodio della costruzione della casa da parte di Pannocchia e Carestìa, dove i due flussi, di parole e di azioni, corrono paralleli l'uno influenzando l'altro con la sua coerentissima dissennatezza: il risultato è che, alla fine, i due, perfettamente felici, si trovano inscatolati dentro una casa senza finestre e senza porte. Storie dell'anno Mille è un esempio in qualche modo straordinario, e dilettosissimo, dell'influenza che la lettera ha sulla realtà: forse il rimando più pertinente, più che al teatro di Ionesco o a certa nostra novellistica (prima si era citato il Basile) dove personaggi scimuniti compiono letteralmente, fraintendendo, ciò che viene loro ordinato (e così per esempio il giovanotto invitato a non uscire di casa senza "tirarsi dietro la porta", scardina l'uscio e se lo carica sulle spalle), indirizza a talune folli sequenze di film dei fratelli Marx. È vero però che Pannocchia, Carestìa e Millemosche non sono affatto scimuniti. Essi sono, in qualche modo, terribili loici o se si vuole poeti: per loro non esiste più metafora, espressione figurata: ogni metafora è realtà.

Sarebbe difficile, in questo romanzo a quattro mani, distinguere le invenzioni che spettano a Malerba e quelle che sono di Guerra. I due scrittori, fra i più singolari della nostra narrativa contemporanea, hanno ovviamente certi umori comuni. Comunque si potrebbe anche dire che l'attitudine all'astrazione grottesca, alla logica del nonsense sembra derivare dalle pagine dei libri di Malerba, dalla Scoperta dell'alfabeto a Salto mortale, mentre talune trovate di movimento, il senso irresistibile che il corpo è qualcosa che vive a sé e può impadronirsi di noi, rispecchiano un carattere tipico della narrativa di Guerra (L'uomo parallelo). Storie dell'anno Mille è una favola di un comico insieme denso e intellettualissimo, che gioca fra il puro divertimento, l'antica facezia e il "folle" di gusto moderno. ("Si mettono a camminare gattoni tenendo gli occhi chiusi per non essere visti." Ma il divertimento chiamato in causa è del tipo particolare, pungente che entra in ogni fase di quel Gran Gioco con le Parole che è la letteratura. Una favola in cui trionfa una sorta di automatismo frenetico e i personaggi vengono sbattuti qua e là, a comporre via via una sequenza vertiginosa di vignette: ma che finisce per avere molti più sensi, e più profondi, di parecchi libri cosiddetti seri.

GIULIANO GRAMIGNA


 

 

INTRODUZIONE

LA VITA E L'OPERA

 

Tonino Guerra nasce a Santarcangelo di Romagna, in provincia di Forlì, nel 1920.

La sua opera dialettale, iniziata nel 1946, è riunita nel volume I Bu (I buoi) uscito nel 1972. Le prime prove di narratore furono La storia di Fortunato e Dopo i leoni, cui fecero seguito L'equilibrio, L'uomo parallelo (Premio Argentario 1969), Il cannocchiale (in collaborazione con Lucile Laks), I cento uccelli e, nel 1978, Il Polverone, tutti tradotti nelle lingue principali.

Il nome di Tonino Guerra divenne presto noto anche nel mondo cinematografico internazionale: con Antonioni e Fellini ha collaborato alla sceneggiatura di film di grande successo come L'avventura, L'eclissi, La notte, Deserto rosso, Elowup e Amarcord.

Luigi Malerba nasce nel 1927 a Bercelo, in provincia di Parma. Dopo essere stato agricoltore e direttore di una società pubblicitaria, passa attraverso l'esperienza cinematografica. Il cappotto, La lupa, La spiaggia, Amore in città sono tutti film che portano la firma di Malerba.

Nel 1963 passa alla letteratura e pubblica La scoperta dell'alfabeto, (ampliato nel 1971 e ripubblicato in questa collana nel 1977).

Il serpente (Premio di Selezione Campiello 1966) è la storia di una fantasia di un modesto commerciante romano di francobolli, che si rinchiude in un mondo interiore dove vive storie d'amore e di violenza.

Sempre nel 1966 vince la Ninfa d'oro per il migliore soggetto televisivo al Festival Internazionale di Montecarlo.

Nel 1968 esce Salto mortale, una storia pervasa di stranezze e fantasie, dove ogni pagina sembra un colpo di dadi che rimette in discussione tutto. A Salto mortale (Prix Médicis 1970) fanno seguito Il protagonista, Le rose imperiali, Le parole abbandonate e, nel 1978, Il pataffio. Ha anche pubblicato alcuni libri per ragazzi (Come il cane diventò amico dell'uomo, Mozziconi, Storici te e Pinocchio con gli stivali).

Sono questi i due autori che hanno dato vita alle Storie dell'anno Mille, e nel libro ritroviamo le caratteristiche letterarie comuni ad ambedue: una certa predilezione per la campagna e per il paesaggio emiliano e romagnolo, un'attenzione ai caratteri contadini, un gusto per l'avventura, la capacità di raccontare le storie più inverosimili in maniera del tutto concreta.

 

STORIE DELL'ANNO MILLE

 

Una storia compiuta in realtà non esiste: il romanzo è formato da una serie di episodi legati l'uno all'altro dalla presenza dei tre protagonisti: Millemosche, Pannocchia e Carestìa.

Millemosche è, forse, il personaggio principale: si dichiara "cavaliere", e ritiene che questo titolo gli dia diritto a qualche privilegio rispetto ai suoi due compari, ma invariabilmente si rivela al loro stesso livello.

Incontratisi per caso, alla fine di una battaglia, mentre i corvi rovistano tra i cadaveri, i tre, pur appartenendo a fazioni opposte si uniscono in un comune girovagare. Perché ciò avvenga non è chiaro, ma salta fuori, poco a poco, che un problema è comune a tutti e tre, ed è uno dei più grandi problemi di tutto il medioevo: la fame.

Riempire lo stomaco è l'obiettivo principale di questi tre uomini dell'anno mille, e le tentano proprio tutte: raccolgono lo sterco di cavallo, per rivenderlo; chiedono la carità a vari conventi; si arruolano in un esercito che assedia un castello, sperando che l'assedio duri a lungo, per sfamarsi a sazietà; cucinano il berretto intinto nella farina; arrivano ad allucinazioni collettive per cui un prato con molti sassi bianchi diventa un prato pieno di pecore. Ad un certo punto, per una serie di equivoci, lo stesso Pannocchia viene scambiato per un porco, come Charlot, che nel celebre film La febbre dell'oro viene scambiato per un gigantesco pollo.

Ma per procurarsi il cibo, i tre incorrono in una serie di avventure che continuamente mettono a repentaglio la loro vita. Così il libro è anche la storia di una continua fuga. Ed in questa corsa senza fine, come uno spaccato, ci appare la vita medioevale con tutti i suoi vari personaggi.

Le donne sono assenti dalla trama del romanzo a parte Menegota, strana figura di contadina, per la quale un violento schiaffo equivale a una dolce carezza.

Tutto il mondo è ridotto a formule elementari che rispecchiano le impressioni dei tre. Da un dialogo in apparenza privo di grandi concetti "intellettuali " viene fuori una filosofia semplice ma non per questo priva di forza. Le domande a cui i tre tentano di dare risposta sono infatti, in apparenza, sconcertanti: "Da dove viene la terra? che cosa è la vocazione religiosa? È meglio l'acqua o il fuoco?"

E le risposte più che da un ragionamento complesso sono determinate dagli istinti che muovono i tre nella loro continua fuga. Così, ad esempio, l'acqua è meglio del fuoco, quando spegne un incendio pericoloso, ma è peggio del fuoco quando minaccia di annegare la gente.

Nel libro si ritrovano i caratteri contadini e furbi della terra d'origine comune ad ambedue gli scrittori: l'Emilia Romagna.

Così nella fine che non c'è, nel senso che la storia sembra continuare con altre avventure, pare di ritrovare la continuità di un modo di vita naturale, ingenuo e astuto insieme che è tipico di una certa tradizione campagnola di tutti tempi.

 

L'ideologia

 

Quando studiamo il medioevo a scuola siamo obbligati a sapere tutto sulle battaglie sostenute da Ottone I contro gli Ungari. Ricordiamo a memoria la grande pace di Augusta. Dobbiamo conoscere il significato della Cavalleria. Studiamo che, accanto al santo, all'asceta, all'eremita, il cavaliere è una delle figure caratteristiche del medioevo.

Siamo abituati a immaginarci festosi tornei, giostre in cui il primo premio è la mano della bella figlia del signore feudale.

Pensiamo alla cultura dei grandi monasteri benedettini, in cui si studiavano le arti del Trivio (Grammatica, Retorica, Dialettica e Logica) e del Quadrivio (Astronomia, Musica, Aritmetica e Geometria) .

Ma studiamo mai qual era realmente la vita e l'ideologia dei poveri, della massa enorme di affamati che premeva sulle città e sulle campagne in cerca di cibo? Il libro nella sua semplicità ci dà l'immagine di questo tipo di persone, che vengono raramente menzionate nei libri di testo.

Allora non esisteva la televisione, la radio; i giornali erano sconosciuti perché ancora non era stata inventata l'arte della stampa che farà la sua apparizione solo fra cinque secoli. La scuola era patrimonio di ricchi o del clero e i bambini non uscivano spesso dal loro piccolo orticello. In questa situazione la trasmissione della cultura era affidata alle canzoni dei vari cantastorie, era affidata alle storie che venivano tramandate di padre in figlio. I più poveri dunque avevano una cultura che era storpiatura ridotta e involgarita delle cognizioni in possesso delle classi più ricche e del clero in generale. La lingua del papa, il latino, lingua dei dotti e dei preti, diventa per Millemosche un misterioso rumore che finisce in US, UM, IBUS, ORUM, come una formula magica di streghe. L'onore, per Pannocchia e Carestìa, suggestionati da Millemosche, diventa possedere un cavallo ed essere cavaliere, il simbolo dell'onore è dunque il cavallo, che non può dunque essere mangiato, nemmeno nella più grande fame. Satana è per i contadini di uno sperduto villaggio un nemico reale che minaccia di divorare la loro grassa mucca.

 

La società

 

Siamo in pieno medioevo, anno Mille. Paura, superstizione e fame dominano tutti i rapporti sociali. Attraverso le esperienze dei tre vediamo una società opposta alla nostra. Il mondo medioevale è fatto di tanti piccoli microcosmi, separati l'uno dall'altro come i castelli erano separati da alte mura e profondi fossati dal resto del territorio.

Vi è la vita dei monaci: digiuni, preghiere collettive, sfruttamento della religione a fini di lucro sono le caratteristiche di questo piccolo universo che è il monastero medievale. Esso è come un centro di cultura e di potere a cui accorrono dai paesi d'intorno frotte di villici ignoranti per adorare le reliquie dei santi.

C'è poi la casta dei militari mercenari. Il servizio militare non è obbligatorio. Un qualche ricco signore assolda, per la conquista di un regno adiacente, un capitano di ventura il quale, con i soldi avuti a disposizione ingaggia dei soldati mercenari, attratti dalla prospettiva di una paga sicura, di un cibo garantito e forse di un ricco bottino. Così tutto l'interesse dei soldati e dei loro comandanti diventa il prolungare al massimo il periodo d'ingaggio, per guadagnare qualche soldo in più. L'assedio intorno alla città nemica, questa forma di guerra assolutamente senza senso in un'epoca di missili, diviene una piacevole scampagnata senza grande spargimento di sangue, in cui gli assedianti curano i propri orti, allevano bestiame e si riposano.

E vi è il terribile mondo degli appestati, spesso evocato con paura dai tre che si trovano a sfiorarlo nelle loro peripezie. È un incubo fatto di dolore e di morte. Un mondo chiuso a tutti gli altri, in cui gli ammalati non sono, come oggi, curati in ospedali, ma sono lasciati a se stessi. Vagano per le strade, assetati e allontanati come cani rabbiosi, costretti a tenere al piede una campanella che è simbolo e avvertimento di morte.

Appaiono d'improvviso i pirati saraceni, il pericolo che viene dal mare.

Le canzoni tramandate da quel periodo ricordano la famosa "vela nera", caratteristica delle barche dei pirati che calavano a terra facendo razzie e prendendo schiavi. È un'altra società ostile, un'altra lingua, un'altra religione, totalmente sconosciuta, ancora non nota attraverso le storie fantastiche delle crociate.

I contadini sono un'altra struttura a sé stante. Vivono in casupole sparse per le campagne, esposte alla furia dei vari eserciti. Ognuna di queste casupole costituisce un nucleo autosufficiente, dove si produce per consumare sul posto.

La produzione e lo scambio di merci sono estremamente limitati. Non esistono grandi fabbriche, si produce quel tanto che serve per essere consumato.

Ogni castello è isolato e sa badare a se stesso. Il mercato è molto ridotto: i contadini non producono grano da vendere sul mercato, la lana delle pecore viene filata in luogo. Così le comunicazioni sono scarse: che bisogno c'è di comunicare se ogni comunità basta a se stessa?

Gli unici viaggiatori sono i monaci che si spostano da un monastero all'altro e i militari in marcia.

Il potere è sminuzzato nelle mani di tanti piccoli principi che si accontentano di chiedere grano ai propri contadini: dediti in genere al lusso in corti dominate dall'ignoranza. Nelle loro mani è il diritto di vita e di morte sui sudditi inchiodati alla terra.

La cultura è patrimonio di pochi adetti che si tramandano le cognizioni degli antichi filosofi senza aggiungere niente di nuovo. È l'epoca in cui San Benedetto da Norcia fondava l'ordine dei benedettini che tanto merito ebbero per tutta la cultura occidentale con la loro opera di ricopiatura dei libri greci e latini. Opera compiuta interamente a mano, da cui la denominazione di "amanuensi", data ai monaci addetti all'opera.


Дата добавления: 2018-02-28; просмотров: 494; Мы поможем в написании вашей работы!

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